- Sarò una matematica! - annunciai alla mia famiglia. Era ottobre, era il 2000, e in quelle settimane mi ero affacciata in mille aule della Sapienza, curiosando tra le prime lezioni di almeno quattro corsi di laurea diversi. L’alternativa più pressante era lettere, ma mi sembrava che i libri avrei potuto leggerli sempre, anche da sola, mentre, diciamocelo, non mi sarei mai messa a comporre teoremi per hobby. E questa era una delle ragioni della mia scelta.

Poi c’era la sensazione che in matematica, se sei preparato, lo sai. In una materia fatta di tante verità (allora la vedevo così) mi sembrava semplice auto-valutarmi, mentre sul finire del liceo mi era capitato di leggere paginate, che so, di storia, senza saper stabilire se mi fosse rimasto qualcosa oppure no. Magari alla fine la risposta era no, e magari lo scoprivo nel momento sbagliato...

Infine c’era una terza ragione: ero attratta dall'astrazione e respingevo tutto ciò che mi sembrava anche solo vagamente applicativo. Mi piaceva immaginare la mia occupazione futura come una specie di paesaggio ideale, rarefatto, popolato solo di linde ipotesi e di logiche, splendide, nitide tesi. Naturalmente è un delirio, ma uno di quei deliri che ai matematici piacciono moltissimo.

E invece di nitido, all'inizio dell’università, ci fu poco! Nei primi mesi i miei colleghi (anche alcuni che, come me, avevano fatto il classico) divoravano esercizi ai miei occhi difficilissimi, mentre io lottavo con i rudimenti a pagina 2 dei libri di testo. Quando incontrai l’algebra seppi che era quella la matematica che amavo, ma la sensazione di inadeguatezza non mi abbandonò mai del tutto. Nemmeno quando, dopo tanti esami e una tesi in teoria di Galois, mi ritrovai con la mia brava laurea.

Tuttavia a novembre dello stesso anno ero a Bologna, completamente afona (poi spieghiamo perché), a fare un colloquio di dottorato. Un esame orale senza voce: molto bene. Bisbigliavo, scrivevo alla lavagna, guardavo bene in faccia i membri della commissione perché potessero almeno leggere il labiale. La performance da film muto, chissà come, mi portò fortuna, e poco dopo mi trasferii a Bologna. Ero felicissima di quell'occasione, e allo stesso tempo terrorizzata. Credevo di non essere all'altezza, ma non volevo rinunciare. E poi il mondo dei matematici era bellissimo: tra loro ho sempre trovato persone piene di interessi, generose, fantasiose.

Ogni tanto provavo a chiedermi se potevo fare qualcosa di più adatto a me. Insegnare? Si salvi chi può! Entrambi i miei genitori erano insegnanti, e io volevo avere un lavoro diverso. La finanza? Boh. Programmare? Mah. In effetti non avevo le idee molto chiare su che cosa può fare un matematico fuori dall'università.

In verità c’era una cosa che mi piaceva, ed era il motivo per cui ero arrivata all'esame orale di dottorato senza voce. Venivo direttamente da Genova, dove per due settimane avevo fatto l’animatrice scientifica al Festival della Scienza. Un giorno a Roma avevo letto l’annuncio, del tutto casualmente, su un ritaglio di giornale, e dopo un paio di colloqui e qualche giornata di formazione ero lì col mio magliettone bianco e rosso ad accompagnare adulti, bambini e intere classi su e giù per una mostra a tema matematico. Come mi divertivo! Mi piaceva coinvolgere i visitatori, raccontare storie, giocare. Mi piaceva tanto che dopo una sola settimana avevo perso del tutto la voce e facevo la guida a gesti, e andava bene così. Comunque questa è una cosa che mi è capitata una volta, pensavo. Un festival di due settimane. Non è mica un lavoro.

Perciò continuavo il mio dottorato. Studiavo su due linee di ricerca: la prima riguardava la teoria delle rappresentazioni di un certo tipo di gruppi finiti, e l’altra una dimostrazione algebrica di un risultato classico molto importante anche in analisi, il teorema di Campbell-Baker-Hausdorff. Intanto lavoravo - saltuariamente - con Formath Project, una società bolognese di divulgazione matematica. Per esempio facendo la guida in un percorso sulla matematica delle bolle di sapone. Oppure in trasferta a BergamoScienza, in una mostra di giochi di logica. O magari a scuola, raccontando ai bambini di seconda elementare il sistema di numerazione degli Egizi e dei Maya.

Nel frattempo avevo scoperto che a Trieste, alla SISSA, c’era un master dove si studiavano proprio le cose che mi piacevano: scrivere di scienza, raccontarla al pubblico, creare mostre. Però insieme al dottorato non sarei mai riuscita a seguirlo, e dopo… be’, dopo avrei avuto quasi trent’anni, e il master durava altri due anni. Ricominciare a studiare mi sembrava un lusso troppo grande.

Dopo la discussione della tesi di dottorato cercai di raccogliere le idee. Era il momento di mandare candidature per una borsa post-doc in giro per il mondo. Volevo farlo davvero? Per prendere tempo partecipai a un progetto pilota dell’università di Bologna, destinato proprio a chi aveva appena finito un dottorato in una disciplina scientifica, chiamato La ricerca entra in impresa. Intanto nella mia testa il master della SISSA tornava prepotentemente a galla: dovevo almeno tentare. Così, dopo l’estate, volai a Trieste per fare l’esame di ammissione, “tanto per vedere”. Alla fine passai la selezione, e a quel punto non potevo rinunciare! Iniziai a fare su e giù tra Bologna - dove lavoravo a una serie di video didattici di matematica per Zanichelli - e Trieste.

È stata la cosa migliore che potessi fare. Alcuni dei corsi del master erano pieni di spunti. Per due anni la mia conoscenza della matematica si è fusa con il ritorno alle materie letterarie, alla creatività, al lavoro di gruppo. A Trieste ho stretto amicizie grandissime, e intanto ciò che amavo fare si rivelava reale. Esisteva un posto in cui si imparava. Potevo fare interviste, mettere in scena la matematica, inventare un gioco a tema scientifico e un sacco di altre cose. Contemporaneamente tornavo a coltivare il mio lato umanistico e, soprattutto, a scrivere.

Il master prevedeva uno stage, e tornai definitivamente a Roma per lavorare tre mesi nella redazione di Radio3Scienza, il quotidiano scientifico di Radio3. Scoprire la radio è stato come accorgersi di colpo di una terza via dopo la letteratura e il cinema, e il mio tempo libero ha iniziato ad affollarsi di podcast. Ho imparato a conoscere il lavoro di redazione, la catena di montaggio che porta a ogni puntata, il bello e il brutto della diretta: qualunque cosa accada, ogni giorno si va in onda, e tu devi essere pronto. Altro che paesaggio limpido, ipotesi e tesi!

Finito quello stage, da brava rappresentante della generazione choosy, mi sono cimentata in un altro stage, e poi un altro ancora. Tra i vari tirocini lavoravo alla tesi di master, quando un giorno arrivò una telefonata da Radio3Scienza. C’è un’emergenza, serve una sostituzione: te la senti?

Me la sento sì!

Ora lavoro a Radio3Scienza da diversi anni. Tutti i giorni sono in redazione e mi alterno al microfono con i colleghi. Collaboro alla scelta degli argomenti da trattare, gli ospiti da invitare, le domande da fare. Capita anche che mi prenda un po’ di tempo per realizzare un audiodocumentario: un pezzo di radio post-prodotto con testi, musica, suoni, voci. La cosa più bella è che in questo mestiere ogni giorno fai una cosa nuova, non smetti mai di imparare, ti occupi di tanti argomenti diversi, e soprattutto incontri continuamente nuove persone che spesso sono menti eccezionali. 

Nel tempo libero scrivo articoli, e a volte tengo lezioni di radio in master di giornalismo scientifico come quello che frequentavo a Trieste. Tra tutte queste cose è stato molto bello scrivere un libro per ragazzi insieme a Vichi De Marchi, in uscita con Editoriale Scienza: si intitola Ragazze con i numeri ed è una raccolta di biografie di scienziate. Tre di loro, guarda un po’, sono matematiche.

Spesso la mia formazione di matematica salta fuori nel mio lavoro alla radio o nei pezzi che scrivo: l’attrazione per quel mondo ideale è ancora tutta lì, tale e quale. È chiaro che nel mio quotidiano non uso direttamente tutta la matematica che ho macinato in tanti anni di studio, e un sacco di cose le ho dimenticate. Ma, a parte i contenuti, mi è molto utile anche aver vissuto in prima persona il mondo della ricerca: sapere che cosa significa pubblicare su una rivista peer reviewed, che cos'è un preprint, che cos'è un referee. E, soprattutto, che cosa significa per uno scienziato tentare di rispondere a una domanda senza sapere se la risposta è a portata di mano oppure no. Non sono diventata una ricercatrice, ma ho trovato una dimensione giusta per me in un modo diverso e del tutto inaspettato. Riesco a vedere la bellezza della matematica e delle altre scienze, e mi piace raccontarla.