La matematica è una materia che mi ha affascinato fin da piccolo. Questa è la frase con cui ci si immagina di iniziare a parlare del proprio percorso, ma a essere totalmente sinceri non è esattamente vera. Di certo trovavo facile la matematica, ma questo era vero anche per altre materie. La matematica era più che altro una gran seccatura, con esercizi ripetitivi e poco stimolanti, una gran noia. Molto meglio l'educazione artistica, l'astronomia, la storia, leggere un bel romanzo...

Poi, non so bene né come né quando, le cose sono cambiate. Ad un certo punto due aspetti della matematica hanno iniziato ad affascinarmi. Il primo, forse meno importante, è l'aspetto estetico. Per scrivere la matematica, sono necessari molti simboli, alcuni dei quali decisamente inconsueti. Ebbene, questi simboli li consideravo (e li considero tuttora) estremamente belli, mi affascinavano: mi sembravano celare un misterioso e arcano significato, e che fosse necessario impegnarsi a lungo per poterlo afferrare. Essere iniziati ad essi.

Ma certo, questa fascinazione estetica e quasi esoterica da sola non spiega l'avvicinamento alla matematica: è lo stesso fascino che si può provare di fronte ai geroglifici egizi o a sistemi di scrittura lontani e diversi dal nostro. Il lato che veramente mi affascinava era più profondo: che cosa significa dimostrare qualcosa? Voglio dire, per dimostrare che una persona non può passare attraverso un muro, basta fare la prova empirica: si cammina verso un muro, e ci si rende conto che ci si sbatte contro, che non si va oltre. Altra cosa è capire il perché di questo fenomeno, ma è tutto sommato chiaro cosa significa dimostrare che è vero.

Ma che cosa significa dimostrare che la radice quadrata di 2 non è un numero razionale? Come si può farlo? Non ci troviamo di fronte a cose tangibili, ma a entità estratte, che verificano proprietà astratte. La prima significa che se un numero ha come quadrato 2, allora non può essere il risultato della divisione di due numeri interi. O, detto altrimenti, che presi due qualunque numeri interi, il risultato della loro divisione non potrà avere quadrato uguale a 2. Come si può dimostrare una cosa simile? Bisogna essere sicuri che questo sia vero presi due qualunque numeri interi. Ma i numeri interi sono infiniti: come si può dimostrare qualcosa su un'infinità di coppie di numeri?

Il fatto che con la matematica lo si possa fare (o meglio: che la matematica fornisca un linguaggio, su cui siamo tutti relativamente d'accordo, che permette di concludere affermazioni come quella precedente), è sempre stato e sarà sempre per me motivo di grande fascino. Imparare a farlo, o addirittura poterlo fare su problemi ancora irrisolti, è probabilmente quello che mi ha spinto a scegliere di studiare matematica. In realtà, preferisco dire “scegliere di fare matematica”, perché l'aspetto divertente non è solo studiare e capire quello che gli altri hanno fatto, ma cercare di fare qualcosa di nuovo: cioè, di farla anche io, questa matematica.

Mi sono quindi iscritto al corso di laurea in matematica a Milano, iniziando il mio percorso di studi in compagnia di un'ottantina di altre persone, anche se solo meno della metà di queste avrebbero terminato il percorso. Perché non è un percorso facile, anche se si ha molta passione. Ma con la giusta motivazione, e soprattutto con la giusta compagnia, gli esami si superano e si arriva alla tesi.

Prima però bisogna sapere che la matematica non è certo quella della scuola. Non è quella noiosa delle equazioni tutte uguali e ripetitive da risolvere (che però sono la palestra più efficace per allenare riflessi e abilità). Non è quella dei limiti e degli integrali, che già richiedono una piccola dose di creatività e fantasia. La prima lezione del corso di algebra fu chiara in questo senso: dimenticate calcoli e equazioni, siamo qui per ragionare, per dimostrare teoremi. Per capire come passare da A a B, giustificando ogni affermazione, vagliando tutte le possibili contraddizioni. E non c'è un modo di farlo, né un modo per insegnarvi a farlo. Bisogna essere creativi, avere molta fantasia, immaginare strade che non si vedono e cercare di costruirle in modo che non crollino. Questo vuol dire provare a dimostrare un teorema.

Inoltre, studiando matematica in università se ne incontrano tanti tipi diversi (e la lingua francese in questo senso rende molto più giustizia alla nostra disciplina: si parla des mathématiques, al plurale). La geometria, l'algebra, l'analisi, il calcolo numerico, la fisica matematica, la probabilità sono alcune delle tante aree di studio diverse che rispondono a domande ed esigenze diverse, usando strumenti e tecniche particolari. Io fui affascinato da subito dall'algebra e dalla topologia: con la prima si impara a capire quali proprietà si usano quando si fanno le operazioni (anche quelle semplici, di tutti i giorni), quali usare e quando; con la seconda si impara a manipolare oggetti geometrici, tirandoli, piegandoli, incollandoli, per capire quali proprietà rimangono invariate e quali invece si perdono.

Proseguendo con gli studi, decisi di specializzarmi in geometria algebrica: usando il linguaggio preciso e formale dell'algebra, e gli strumenti che mette a disposizione (gruppi, anelli, campi, moduli), la geometria algebrica studia le proprietà geometriche delle cosiddette varietà, spazi e sottospazi che formano delle configurazioni estremamente complesse. Fu in quest'area che decisi di svolgere la mia tesi di laurea, in cui il mio insegnante di riferimento, Bert van Geemen, mi permise (con quanto aiuto!) di dimostrare il mio primo vero teorema. Non solo ero riuscito a fare davvero della matematica con le mie mani, ma mi era anche piaciuto moltissimo. Scoprii che quando si riesce a trovare il bandolo della matassa, capendo infine come far filare il ragionamento senza intoppi, è come se si terminasse la scalata di una parete di montagna nebbiosa e frastagliata, ed arrivati in alto si vedesse finalmente il paesaggio intorno, regolare e bello...

Finita la tesi, bisognava scegliere: tornare con i piedi per terra e cercare un lavoro “normale”; oppure continuare a provare a dimostrare teoremi, a scalare montagne. Bert mi propose di andare a Parigi, con una borsa di studio di quattro mesi, per perfezionare il mio risultato ma, soprattutto, per conoscere una realtà diversa e altre persone che mi potessero iniziare ad altre aree della matematica. Fu così che nel marzo del 2004 sbarcai a Parigi, e per quattro mesi continuai a fare matematica in quello che è divenuto per quasi quindici anni il mio paese di adozione (anche se allora, ovviamente, non lo sapevo).

Non volli farmi sfuggire l'occasione di vivere per un po' a Parigi, e dopo quei quattro mesi (che passai all'Università di Parigi XI) decisi di continuare la mia formazione iscrivendomi all'ultimo anno della Laurea Specialistica in Matematica all'Università di Parigi VII. Doveva essere un solo anno, mi dicevo, in cui avrei imparato moltissima nuova matematica per poi tornare in Italia. La formazione fu dura, gli esami probabilmente superiori alle mie capacità, ma riuscii a ottenere dei buoni voti, per poi concentrarmi sulla produzione dell'elaborato di fine anno, il mémoire. Daniel Huybrechts, il mio direttore di mémoire, mi propose di generalizzare un teorema degli anni '60 di Pierre Gabriel, e devo dire che grazie alla formazione di quell'anno, oltre all'esperienza precedente a Milano, riuscii a cavarmela (!).

Finito ciò, bisognava ancora scegliere: tornare in Italia e cercare un lavoro normale; oppure iniziare un dottorato in Italia o in Francia. Scelsi quest'ultima via: trovai (per mia grande fortuna) la mia opportunità all'Università di Nantes, grazie a Christoph Sorger, che divenne il mio direttore di tesi. L'impatto fu abbastanza duro: mi mise tra le mani un libricino di nemmeno trecento pagine, e mi disse di tornare da lui quando l'avessi finito. Ci misi quasi un anno.

A quel punto iniziai a lavorare sul mio argomento di tesi, a cavallo tra la teoria delle varietà iperkähleriane e quella degli spazi di moduli di fasci, argomento ancora oggi al centro della mia ricerca. Ebbi anche le prime opportunità di seguire seminari e gruppi di lavoro, di parlare dei miei problemi con altri dottorandi e ricercatori, di raccontare i miei risultati in conferenze e convegni, venendo a contatto con un grande numero di persone che lavoravano su problemi simili. Senza questi contatti né le innumerevoli discussioni avute con persone di ogni parte del mondo, non avrei mai potuto finire la mia tesi.

Scoprii che i miei risultati potevano interessare altre persone, e che non mi riusciva affatto male parlarne mediante conferenze ad altri esperti dell'argomento. Scoprii anche che era bellissimo riuscire a scrivere il risultato di mesi, anni di lavoro in modo formale, chiaro, preciso, che altri avrebbero potuto leggere. Che vedere la tesi o un articolo venirsi a formare sotto le dita dà una soddisfazione tutta particolare, che non si può provare altrimenti.

Finita la tesi di dottorato passai due anni di post-dottorato in Germania, a Mainz, sotto la direzione di Manfred Lehn. Furono due anni difficili: dacché prima e durante la tesi di dottorato avevo sempre avuto qualcuno a dirmi in che direzione andare, ero per la prima volta senza guida nel deserto. Dovevo trovare da solo il modo di orientarmi, le forze per iniziare qualcosa di nuovo, e la capacità di portarlo a termine. Vennero di nuovo in mio aiuto altri ricercatori che come me lavoravano su problemi simili, e che andavano incontrando difficoltà analoghe. Parlando con loro, alcuni dei quali erano diventati nel frattempo amici, riuscii a trovare nuovi problemi da affrontare e risolvere, nuovi articoli da scrivere, nuovo materiale con cui presentarmi ai vari concorsi che mi aspettavano per avere il tanto agognato posto fisso in Università come ricercatore ed insegnante.

Dopo due anni in Germania, finalmente l'occasione giunse: tornai in Francia, passai un anno a Nancy come insegnante e ricercatore, e poi riuscii a vincere il concorso da ricercatore nella stessa città. Era il 2012 e diventavo insegnante e ricercatore con un contratto a tempo indeterminato in una Università, quella di Lorena, dove potevo dedicarmi non solo alla mia ricerca, che dopo gli anni tedeschi e le difficoltà incontrate era ormai abbastanza avviata, ma anche all'altra parte della matematica, che non avevo ancora avuto veramente l'opportunità di esercitare: l'insegnamento. Il contatto con gli studenti può essere veramente splendido: arricchisce umanamente e intellettualmente, e avendo io sviluppato negli anni precedenti una vera passione per riuscire a comunicare in modo chiaro e preciso concetti talvolta molto astratti, potevo finalmente dedicarmi anche a questo. Certo, non è sempre facile, né sempre possibile farlo, e non sempre gli studenti sono motivati al punto giusto, ma l'insegnamento è per me fondamentale in questo mestiere.

Inoltre, a Nancy ho imparato anche altri aspetti del mio lavoro che non avevo mai incontrato prima, come l'organizzazione di convegni, seminari, gruppi di lavoro (fondamentali per permetterci di parlare tra di noi e avanzare su problemi di ricerca attuale), con l'annessa ricerca e gestione dei fondi per poterlo fare. Ma anche l'interazione con altre aree della ricerca scientifica come l'informatica, conoscendo realtà e pratiche diverse.

Per quasi quindici anni ho fatto parte di quella categoria complessa e variegata dei “cervelli in fuga”. Sia detto per inciso, questa espressione non mi è mai piaciuta. La fuga ha una connotazione negativa, arrendevole, sembra quasi un rimprovero, come a dirci che stiamo scappando invece di affrontare le difficoltà italiane. Ma io non mi sono mai visto in questo modo, non ho mai pensato di stare fuggendo: sono andato all'estero, mi sono formato e mi sono dovuto allontanare per trovare la mia occasione. Ma questa è un'opportunità, non una fuga, e un sistema che funziona dovrebbe incoraggiare i propri giovani a formarsi anche all'estero, ad arricchirsi, per poi tornare, se lo desiderano, per riportare dall'estero idee e metodi nuovi e diversi: se c'è una cosa che la ricerca insegna e conferma, è proprio che l'unico modo per crescere è aprirsi, mescolarsi...

Nel corso degli anni ho partecipato a vari concorsi per ottenere un posto di lavoro in Italia, e l'occasione si è finalmente presentata nel 2017, quando sono diventato Professore Associato di Geometria all'Università di Genova. Posso quindi insegnare la mia materia di predilezione e contribuire a formare altre persone che, magari, si troveranno ad affrontare una strada simile alla mia, che li porterà a toccare vari paesi, a conoscere centinaia di persone diverse, a dimostrare teoremi più o meno interessanti, a fare la loro matematica.

Non è stato un percorso lineare, né facile. Ci sono stati moltissimi momenti difficili, a livello personale e professionale. La lontananza da affetti e amicizie; cambiare ogni due/tre anni casa, città, paese, lingua, conoscenze; abituarsi a realtà nuove, non necessariamente desiderate né familiari; scoraggiarsi di fronte a dimostrazioni che sembrano funzionare alla perfezione finché non ci si accorge di un errore, l'ennesimo, che fa cadere tutto; i concorsi in cui le proprie capacità non sono abbastanza, o non vengono riconosciute né prese in considerazione. Tutto sommato penso che sia un percorso che mi ha dato tantissimo: ognuna delle città in cui ho vissuto mi ha dato qualcosa, ognuna delle persone incontrate mi ha trasmesso qualcosa, ognuno degli errori commessi mi ha fatto imparare qualcosa. Non so se esistano altri lavori che permettono di vivere esperienze simili. Fare ricerca è complesso e frustrante, ma anche molto gratificante; è come percorrere una strada di apertura al mondo che permette di imparare tanto, su di sé, sui propri limiti e sulle proprie capacità.