Beatrice Anzil

Matematica è sempre stata la mia materia preferita e con gli anni mi sono appassionata al suo insegnamento. Passione forse non è neanche la parola corretta, è più entusiasmo quello che sento. Vedere centinaia di menti ogni anno che si sforzano, divertono, fanno fatica ma poi ci riescono (oppure no...) è un meraviglioso racconto di cui mi vanto di far parte almeno per un po’.

Mi sono sempre trovata in disaccordo con le dichiarazioni che “l’insegnante è un lavoro di ripiego” o che “chi non sa fare, insegna”. Io voglio insegnare, voglio far parte della crescita dei miei studenti in persone adulte, voglio provare tutte le emozioni che ne seguono in un singolo anno scolastico. E in più, per mia grande fortuna, mi diverto; mi diverto ad insegnare matematica, mi diverto a creare, modificare e perfezionare delle attività per far capire determinati argomenti, per far sì che, coinvolgendosi, possano trattenere la conoscenza che hanno appreso in classe. Perché diciamoci la verità, dopo un po’ nessuno si ricorda che cosa succede in uno di tanti giorni uno uguale all’altro, ci si ricorda gli eventi, le giornate di festa, i concerti, i compleanni; e lo stesso accade agli studenti a scuola, anche loro hanno bisogno di momenti speciali e diversi dalla normalità per far sì che ricordino e portino con sè qualcosa. Un sottile equilibrio.

Qui vi racconterò un po’ quali sono stati i passi che mi hanno portato dove sono adesso e cosa mi ha spinto a continuare lungo il percorso che ho scelto (o mi è capitato). Un percorso lungo dodici anni, del quale non so ben dire se sia appena iniziato o sul quale io possa dire di averne fatta di strada. Probabilmente sono vere entrambe le versioni.

Cominciamo dall’inizio, dopo le scuole superiori ho scelto con il cuore, la matematica era la mia materia preferita, volevo saperne di più e il piccolo seme di diventare insegnante era già piantato, da poco, ma già piantato. Quindi: Università di Udine, Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali, Corso di Laurea in Matematica. Lì, ho incontrato gente fantastica, e si sa che quando la gente è quella giusta, tutto diventa più bello e più giusto. Porto ancora avanti grandi amicizie dagli anni dell’università, il gruppo di quelli che ce l’hanno fatta, perché “la Matematica non è per tutti” (intendiamoci, non è per tutti a livello universitario perché, al di là del livello cognitivo di ognuno, quello che ci è voluto è stato ferma costanza, convinzione e un gran buon metodo di studio).

Un altro punto cardinale dell’università di Udine sono stati gli insegnanti, ottimi insegnanti, insegnanti con la I maiuscola. Ho avuto l’opportunità di vedere da vicino decine di modi di fare e pensare matematica, non ce n’era uno giusto o uno migliore, se non quello più personale e naturale per il singolo individuo. E questo è un approccio che mi porto dietro tutt’oggi nei miei metodi di insegnamento: cerco di far trovare ad ogni studente il matematico che c’è in loro; non siamo tutti uguali, nemmeno in matematica.

Ancora all’università, ho realizzato che la matematica è, più volte che no, un affare di gruppo. Ne devi parlare, discutere, confrontarti con le idee degli altri e cercare di capirne i punti di vista per poi giungere ad una comprensione personale e profonda di ciò che hai davanti. Certo, c’è del rigore insito nella materia da cui non si può prescindere e spesso mi ritrovo ad ammirarlo nella sua perfezione ma è proprio qui che molti dei miei studenti mi perdono, perché non apprezzano le stesse cose allo stesso modo; ma va bene, mica a tutti piace la pizza! (Da ricordare però che ci sono anche studenti che si ritrovano nella stessa mia ammirazione e che entrambi ci rinfranchiamo di questo fatto; con loro ci si può veramente sbizzarire.)

Quindi, sono nel posto giusto ad esplorare la materia che mi piace di più e sto imparando cose nuove che userò, alcune più ed altre meno, ma incomincio a rendermi conto che il percorso per diventare insegnante potrebbe prendere delle svolte inaspettate. Sono stata in Erasmus in Spagna; al ritorno ho conosciuto mio marito che è un giramondo di natura; l’Italia stava cambiando un po’ di carte in tavola con riforme nuove e io, sommando tutto, ho deciso di buttarmi nell’avventura della qualifica all’estero. Ho compilato e spedito la domanda di iscrizione alla King’s College di Londra per entrare nel loro corso PGCE (Post Graduate Certificate in Education).

E qui cominciano i paragoni e le differenze tra i due sistemi che sono giunta con pazienza a conoscere: quello italiano e quello inglese. Sono volata a Londra per due giorni, chiedendo il permesso alla scuola in cui stavo facendo supplenza al momento, ripassando l’inverosimile della mia conoscenza matematica. La selezione consisteva di una mezza giornata di prove e colloqui con due dei quattro principali insegnati del corso. L’impressione che ho avuto è che non cercassero un’approfondita conoscenza di matematica perché insomma, avendo una laurea specialistica nella materia, si fidavano che qualcosa di matematica ne sapessi, ma cercavano persone adatte all’insegnamento della matematica, con lo spirito e l’atteggiamento “giusto”.

Tra le mille preoccupazioni per il livello del mio inglese e le diverse domande e prove a cui tutti i candidati sono stati sottoposti, mi hanno chiesto di fare un esempio di come spiegherei i numeri negativi ad uno studente di undici anni, di dire cosa ne pensassi di una situazione creata sulla geoboard (Il teorema di Pick) e poi presentare quello che avevo scoperto a tutti i candidati ed ai due professori che stavano giudicando, lì su due piedi; ed infine perché mai insegnamo matematica a scuola al giorno d’oggi? Si vede che le mie risposte sono piaciute, abbastanza almeno da offrirmi un posto. Così comincia uno degli anni più intensi della mia vita fino ad ora.

A settembre 2014 una trentina di speranzosi ed entusiasti studenti di PGCE cominciano il corso che durerà un anno accademico fino a giugno 2015; lungo il percorso solo pochi decideranno che questa non era la strada giusta per loro. Il gruppo è un vero mix di nazionalità ed età: ci sono quelli che sono appena usciti dall’università (circa ventun anni), quelli che hanno provato una carriera in banca ma non si sentivano al posto adatto, io, ex poliziotti in pensione, ex docenti di ingegneria in cerca di una scintilla in più e quelli che ci provano perché la borsa di studio è buona ma non sono convintissimi (sì, nonostante lo sforzo dei professori nella preselezione, qualcuno non con lo spirito “giusto” è passato lo stesso; ma sono pochi e partono svantaggiati).

I quattro docenti del corso hanno come scopo ultimo di prepararci all’insegnamento della matematica nella scuola inglese moderna e cercano di farlo permettendoci di vivere in prima persona un’esperienza il più simile possibile. Un meta-insegnamento: ci insegnavano ad insegnare insegnandoci come volevano che insegnassimo. Spesso si lavora in gruppo, con forbici, colla e puzzle da risolvere, per non parlare di una lezione in Swahili per farci capire come uno studente, non madrelingua inglese, si possa sentire durante una lezione insegnata interamente in un’altra lingua.

Si considerano e analizzano argomenti pedagogico-educativi con i quali si possono accedere e comprendere problematiche, modi di ragionare e preconcetti sbagliati di studenti, cose che un singolo individuo non può conoscere o intuire per semplice esperienza. Periodicamente ci si incontra con il proprio tutor di riferimento per avere delle conversazioni su come si stanno vivendo le cose e sui concetti matematici che ci creano problematiche quando analizzati in profondità; ovviamente sempre con lo scopo di fare un passo avanti sui problemi di ieri ed affrontarne di nuovi per migliorarsi domani.

Pratica che richiama un po’ un aspetto che non avevo mai considerato all’interno del sistema italiano perché non mi è mai stato presentato come reale; e cioè l’essere una figura di riferimento personale per gli studenti. Nel sistema scolastico inglese, infatti, ogni classe di studenti ha un proprio tutor che è lì per loro per qualsiasi evenienza dovesse servirgli; due volte al giorno la classe si riunisce con il tutor per questioni di organizzazione tra appello, comunicazioni e quant’altro ma anche per discutere argomenti della vita di tutti i giorni che possono essere news, problematiche sociali, educazione civica e sentimentale o anche semplici curiosità dal mondo. Si crea un rapporto di reciproca fiducia e confidenza tra tutor e studenti che permette a questi ultimi di sentirsi a proprio agio a discutere di ciò che più desiderano o hanno bisogno.

Tornando a King’s College, la parte più ardua del percorso sono stati i due placements (da tradurre con i tirocini italiani). Durante l’anno, l’università ti garantisce il posto in due scuole con caratteristiche piuttosto differenti tra loro. In entrambi i casi, si è affiancati da un insegnante della scuola ospitante che ti guida passo passo attraverso quattro mesi di esperienza con incontri e obiettivi settimanali. Il primo dei due placements per me è stato alquanto traumatico. La scuola era bella, appena ristrutturata, con una campus meraviglioso e risorse a non finire; per non parlare poi di un dipartimento di matematica fatto da una decina di insegnanti e un totale di studenti di oltre duemila ragazze; sì, era una scuola per sole ragazze.

Ho iniziato con molta insicurezza, non ero ancora a mio agio con l’inglese e non ero convinta delle mie abilità di gestione del comportamento di una classe. Insomma, l’università di Udine mi aveva dato basi solidissime in matematica ed il mio punto forte è sempre stata la subject knowledge ma con tutto il resto mi sentivo alle prime armi. I tre anni di supplenza nella scuola italiana in cui mi sono sentita lanciata in classe senza paracadute né istruzioni per l’uso non vennero in mio aiuto in questo ambiente alieno e così diverso.

Ho pensato parecchie volte tra novembre e gennaio che non ce l’avrei fatta, che non era il lavoro per me, e che era troppo difficile. Mi ero addirittura rifiutata di fare una delle lezioni proposte come tutor e per questo sono stata rimproverata, giustamente. Ma gli errori succedono, se ne discute e si trovano strategie per non commetterli di nuovo. Dopo quattro mesi era finita, ce l’avevo fatta ed ero sopravvissuta al primo placement. Come già detto, le scuole inglesi possono essere abbastanza diverse da quelle italiane, solo per ragazze o solo per ragazzi e, a conferma, ci sono anche le scuole religiose: cattoliche, ebree, mussulmane, etc. Il mio secondo placement quindi era una scuola della Church of England solo per maschi, attorno a 500 studenti, con un dipartimento di matematica composto da quattro insegnanti soltanto. Un’altra zona, un altro ambiente, un’altra sfida.

Alla fine del percorso di abilitazione ero stravolta ma soddisfatta, avevo camminato a lungo, ero caduta, mi ero rialzata e, fiera, avevo raggiunto il mio scopo: ero ufficialmente un insegnante.

Il cosiddetto ruolo nella scuola inglese non esiste; ogni posizione disponibile viene riempita da un insegnante scelto tramite colloquio dal preside della scuola ed una piccola commissione interna, generalmente composta da un membro della Senior Leadership Team e il capo dipartimento interessato. Il colloquio è come ci si aspetterebbe che sia un colloquio in una qualunque azienda: domande, domande e ancora domande, alcune con intenzioni più imperscrutabili di altre. Inoltre, solitamente, viene chiesto di tenere una lezione di prova con una classe su cui il candidato aveva precedentemente ricevuto brevi ed essenziali informazioni. A volte ai ragazzi viene chiesta un’opinione sui candidati che in seguito può venire o meno condivisa con questi ultimi a seconda delle loro preferenze.

Insomma, zero concorsi e nessuna graduatoria: un altro mondo. Ed io, dopo un anno nella scuola del mio secondo placement in cui mi hanno offerto il lavoro dopo avermi visto per quattro mesi da vicino, ho completato l’anno di prova. Ufficialmente nel mondo del lavoro, per motivi personali ho deciso di cercare all’estero, ho fatto un paio di colloqui (uno via Skype) ed ho accettato una nuova avventura a Palma di Mallorca.

Forse si pensa spesso che facendo l’insegnante uno aspiri alla cattedra in una scuola della sua città e si fermi lì per sempre, ma non dev’essere sempre così. L’abilitazione inglese mi permette di viaggiare molto, esistono parecchie scuole inglesi in tutto il mondo, sono sparse un po’ ovunque (ce ne sono anche alle Canarie!). E’ un’opportunità in più ed è un privilegio poter vedere i ragazzi di diverse nazionalità, con diversi punti di partenza e diverse strade, crescere piano piano e diventare persone adulte, a fare il futuro.

Secondo me la matematica è fondamentale in questa crescita, ti offre strumenti importanti per capire e analizzare fatti del mondo adulto, in aggiunta a formare un metodo di pensiero e decisionale critico e funzionale. La matematica non è solo saper far di conto, non serve solo per fare la spesa e non è vero che tutto quello che si fa a scuola non lo userai mai più nella vita. Certo, c’è chi ne userà di più e chi di meno ma nessuno ha ancora trovato una palla di vetro per sapere cosa toccherà ad ognuno di noi nel futuro. Io nel mio piccolo, ad esempio, non sto usando tutta la matematica che ho studiato all’università e i soggetti delle mie due tesi non sono “argomenti da programma” ma non per questo non reputo importantissimi i singoli corsi che ho fatto (se poi uno crede nella teoria degli universi paralleli, proprio quei corsi mi hanno portato esattamente dove sono; senza, sarei altrove).

Una delle cose che più mi piace sentirmi dire è “Prof. ma dov’è la matematica in sta cosa qua?!” parlando di un’attività presentata in classe ed è proprio lì che si pianta il seme che vede oltre le cose, che si fa curioso e che cerca il perché delle cose, a soddisfare quella voglia innata delle persone che sempre devono sapere perché, sin da piccine.

Tutto quello scritto qui sopra è frutto di una visione personale che è colorata da esperienze e preferenze, rimangono quindi opinioni e non giudizi.

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