A differenza di altre esperienze di matematici, non posso dire di aver nutrito la passione per i numeri sin da bambino. Da liceale ero attratto in egual misura dalla biologia, dalla matematica, dalla filosofia e dalla storia, e il dubbio di come e se proseguire i miei studi una volta terminata la maturità scientifica era grande. Scelsi matematica perché la trovavo bella: ancora oggi non credo che potrei dare una spiegazione migliore. Mi piaceva moltissimo l’idea di studiare una scienza esatta, che non necessitava di alcun riscontro pratico per essere più vera o più corretta. Allo stesso tempo,grazie a qualche libro divulgativo e alla lungimiranza della mia insegnante del liceo, avevo ben chiaro come la matematica fosse qualcosa di creativo e vivo, e non un mero elenco di risultati e formule.

Gli anni del triennio a Genova passarono molto velocemente: scoprivo corso dopo corso che la matematica era un mondo sconfinato, vastissimo. Ancora non mi era del tutto chiaro quanto questo mondo fosse anche in continua espansione, ma intuivo che la ricerca universitaria poteva essere un campo affascinante. Per questo, dopo la laurea triennale partecipai al concorso di selezione per il percorso formativo comune presso la SISSA a Trieste, nella speranza di migliorare la mia preparazione per intraprendere poi un dottorato di ricerca (e anche, più prosaicamente, per provare la vita dello studente fuori sede).

L'esperienza di Trieste mi aiutò a capire meglio cosa voleva dire fare matematica, in special modo durante il periodo di tesi. Qui il mio relatore riuscì ad assegnarmi un problema interessante nel campo delle Equazioni Differenziali Ordinarie. Ovviamente non parliamo di problemi aperti del calibro dei millenium problems, ma in ogni caso questa esperienza mi ha permesso di passare mesi a cercare la soluzione a qualcosa che, a nostra conoscenza, non era ancora stato dimostrato. Da una parte, il lavoro di tesi fu davvero entusiasmante, perchè per la prima volta mi permise di assaporare (anche se ovviamente in piccola parte) il piacere che deriva dall’ottenere qualcosa di originale, dopo tanti sforzi. Dall’altra mi permise di capire meglio cosa voleva dire fare ricerca per professione. Per ottenere quel minimo risultato avevo impiegato davvero molti giorni di lavoro, e la soddisfazione finale forse non era stata sufficiente per garantirmi di poter intraprendere la strada della ricerca universitaria con la certezza di avere fatto la scelta giusta.

Iniziai quindi a guardarmi intorno, anche se io stesso non avevo idea di dove e cosa cercare. Per la maggior parte degli anni di laurea avevo sempre creduto di continuare con un dottorato, quindi non avevo le idee ben chiaro riguardo a possibili sbocchi occupazionali. Purtroppo, anche l’orientamento universitario non aveva molto contribuito a chiarirmi le idee: le iniziative non erano molte, ma soprattutto non riuscivo davvero a capire a cosa potesse servire un profilo come il mio a una industria di qualsiasi tipo. Sentivo spesso dire che un matematico ha la “forma mentis” giusta per un certo tipo di attività, ma non capivo bene (e non lo capisco ancora oggi del tutto) cosa volesse dire precisamente. Soprattutto, volevo evitare di iniziare a fare un lavoro senza avere una idea precisa di cosa mi avrebbe portato a fare e di che tipo di soddisfazione avrei potuto ricavarne (in fondo era lo stesso motivo che mi aveva portato a escludere un dottorato).

Contattai quindi direttamente alcune persone che avevano intrapreso una carriera nell’industria dopo la laurea, (alcune usando proprio questo sito). Collezionando un po' storie differenti mi feci l’idea che un matematico potesse lavorare in campo finanziario oppure nel settore informatico. E siccome, fresco di laurea in matematica, curriculum generale, avevo una naturale antipatia per l’informatica, scelsi il primo dei due percorsi. Oggi mi è chiaro quanto quella scelta fu motivata da ragione completamente infondate. Non era vero che un matematico lavora solo in banca o scrive codice. Non era vero che chi lavora in banca non scrive codice. Soprattutto, non era vero che un matematico riesce a lavorare solamente perchè ha la testa giusta, come avrei avuto modo di rendermi conto in futuro.

Per fortuna però, ragioni sbagliate mi portarono verso una direzione di cui oggi sono soddisfatto. Decisi di iscrivermi a un master post laurea in finanza per imparare qualcosa di analisi quantitiva. Frequentando il Master del Collegio Carlo Alberto di Moncalieri entrai in contatto con quello che sarebbe poi diventato il mio lavoro quotidiano, ossia la valutazione di strumenti derivati. I derivati sono strumenti finanziari il cui valore dipende da una o più variabili sottostanti, che possono essere indici azionari, tassi di interesse, spread creditizi, ma anche cose più “esotiche” come i millimetri di pioggia caduti in un anno in una certa area geografica. Una buona parte di matematica finanziaria si occupa di determinare il loro valore: l’idea di fondo è quella di assegnare una dinamica alle variabili sottostanti da cui dipendono, esprimere questa dipendenza in forma funzionale e calcolare misure di vario tipo (momenti, percentile, etc) sulla variabile aleatoria che ne risulta. Scoprii una intera parte di matematica, il calcolo stocastico, che durante il mio percorso di laurea non avevo toccato, o avevo affrontato solamente in maniera del tutto marginale. Sembrava interessante e, cosa ancora più sorprendente per me all’epoca, sembrava davvero che potesse diventare un lavoro per me.

Finito il master iniziai a lavorare subito in una societa di consulenza a Milano, Ernst&Young, dove mi occupavo di valutazione di derivati. La consulenza è un modo abbastanza standard per entrare nel mondo del lavoro in ambito finanziario. Rimasi in E&Y per circa un anno. Da una parte, fu una esperienza davvero formativa, perchè il carico di lavoro richiesto era alto e perchè imparai a “sporcarmi” le mani con la declinazione pratica di quello che avevo imparato al Master. Dall’altra, mi fu chiaro da quasi subito che in quel tipo di consulenza non avrei potuto imparare molto di più nell’ambito derivati, principalmente perchè i clienti che avevamo non lo richiedevano: le banche per cui lavoravamo avevano un buon numero di “quant” tra i loro dipendenti, e quindi non avevano generalmente bisogno di rivolgersi a una società esterna.

Per questo motivo, iniziai a tempestare di CV le banche di investimento italiane e non per posizioni di analista quantitativo. La mia preparazione teorica era abbastanza buona, ma l’ostacolo principale che incontravo era sempre lo stesso: per la totalità delle posizioni per cui applicavo era richiesta una buona conoscenza di un qualche linguaggio di programmazione. In effetti, era impensabile che una banca affidasse la valutazione di portafogli di milioni di strumenti a un gruppo di persone armate di carta e penna: le routine di pricing sono implementate in pratica usando linguaggi di vario tipo (C++, C#, Java). Cercai perciò di dedicare la maggior parte del tempo che mi rimaneva libero dal lavoro a impare il C++. Il materiale certo non mancava, anche se non avevo alcuna esperienza lavorativa nel suo utilizzo (a lavoro al massimo utilizzavo VBA o Matlab per svolgere semplici routine iterative).

Con un po di sforzo riuscii nel giro di qualche mese a imparare qualcosa in C++, e dopo vari colloqui ottenni un posto come analista quantitivo in Citigroup a Londra. Ero finalmente passato “dall’altra parte”, e le mie aspettative furono soddisfatte: il mio gruppo era composto da professionisti che lavorano come quant da decenni. Si lavorava su tematiche davvero all’avanguardia per l’epoca: ricordo che ogni settimana c’era un reading group che presentava un paper su tematiche recenti, una cosa davvero inusuale nella realtà lavorativa a cui ero abituato. Imparai anche che programmare non voleva dire scrivere cicli for e macro per ripetere calcoli noiosi: ideare l’architettura di una libreria di pricing basandosi su pattern di programmazione a oggetti era intellettualmente stimolante, per certi versi molto di piu della matematica che veniva implementata nella libreria stessa.

Vivere all’estero non era però così facile come immaginavo. Pensavo che il lavoro interessante che ero finalmente riuscito ad ottenere sarebbe stato sufficiente a garantirmi soddisfazione e serenità, ma vivere lontano dai propri affetti non è una scelta per tutti, e probabilmente avevo molto sottovalutato questo aspetto. Sapevo che prima o poi sarei rientrato in italia, ma non immaginavo di farlo così presto: dopo pochi mesi ricevetti un’offerta per una posizione analoga in Mediobanca, a Milano, e decisi di accettare.

Sono passati ormai più di 5 anni dal mio ritorno in Italia, e attualmente sono responsabile di un gruppo di “quant” nell’area che si occupa di validazione dei modelli di pricing utilizzati dalla banca. Continuo a analizzare il prezzo e il rischio di strumenti derivati e ad aiutare i miei colleghi su queste tematiche: negli anni abbiamo sviluppato da zero la nostra libreria di pricing, che ora è uno strumento paragonabile a tanti software proposti da vendors esterni.

Riguardando indietro, oggi so che un matematico può lavorare in mille aree differenti, e che la mia è solamente una delle tante possibili storie di chi, finita l’università, decida di lavorare nell’industria. Conosco matematici che lavorano come esperti di machine learning e intelligenza artificale, altri che calcolano i premi corretti per una certa tipologia di polizze assicurative, altri ancora che lavorano nell’abito delle ricerche di mercato, altri come bioinformatici. Oggi non credo più al luogo comune del matematico che ha la testa giusta per fare qualcosa. Credo invece che il matematico abbia le conoscenze giuste per fare alcuni lavori. Certamente, le doti analitiche in generale sono utilissime in quasi ogni occupazione; d’altra parte, capire se un dato statistico è significativo o meno, descrivere una dinamica di un fenomeno con una equazione differenziale, risolvere numericamente una PDE sono tutte conoscenze, non attitudini, e i lavori in cui queste conoscenze possono essere utili non sono pochi.